Dicembre 21, 2024

Il terzo tempo

"When the seagulls follow the trawler, it is because they think sardines will be thrown into the sea"

“Giocare a Stamford Bridge è un’emozione indelebile” – La nostra intervista al “pifferaio” Federico Piovaccari

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Abbiamo avuto il grande piacere di fare una lunga chiacchierata con un bomber da oltre 100 reti in carriera: Federico Piovaccari. Autore di una grandissima carriera, il “pifferaio” – ci ha raccontato anche com’è nato questo soprannome – ha giocato per tanti club prestigiosi. Oltre alla Triestina, maglia che ha onorato segnando contro la Juve, ha avuto una grandissima esperienza a Cittadella, timbrando il cartellino 23 volte in un campionato di Serie B. Ma le avventure più gloriose, probabilmente, sono state quelle estere, su tutte quella con lo Steaua Bucharest: qui, oltre ad aver affrontato il Chelsea di Mourinho, ha segnato contro il Basilea in Champions League. Dopodiché è approdato in Liga, all’Eibar, rendendosi protagonista di un’annata importante, in cui non solo ha affrontato Messi e Ronaldo, ma ha anche segnato contro l’Atletico Madrid. Il suo più grande amore, però, è il Cordoba, club con cui ha totalizzato oltre 90 presenze, facendo centro 26 volte. Ma questo è solo un assaggio della sua grandissima esperienza da calciatore, perché il centravanti di Gallarate ha militato anche in campionati come quello cinese, oltre a quello australiano, per poi tornare in Italia e giocare successivamente a San Marino, capitoli della sua carriera che ci ha descritto approfonditamente. 

Ci teniamo, pertanto, a ringraziare sia l’atleta che la Virtus, società con cui Federico ha appena giocato i preliminari di Champions, per la bella opportunità e la straordinaria disponibilità. 

“Nella prima stagione con il Vittoria, in Serie C1, hai segnato 10 gol, di cui 6 da subentrato. Come hai fatto ad essere così decisivo scendendo in campo a partita in corso?”

“Purtroppo nel calcio si gioca in 11: c’è chi subentra e a volte l’allenatore fa i cambi giusti. Fa parte del gioco e, parlando di noi attaccanti, questo è il modo giusto per mettere in difficoltà il mister nelle scelte. Personalmente, trovare spazio è importante, ma chi entra lo fa per il bene della squadra”.

“La stagione seguente ti sei trasferito al San Marino: quanto ti è servita quell’esperienza?”

“Tutte le esperienze mi sono servite. Io ero sotto contratto con l’Inter e sono andato via in prestito. Quell’anno avevo firmato in Serie B con il Treviso, che poi era stato ripescato in Serie A e l’ultimo giorno di mercato sono approdato al San Marino, in C1. Ero andato in ritiro con i Biancocelesti, pensando che avremmo giocato in cadetteria, poi, essendo stati ripescati in massima serie, avevano fatto altre scelte: avevano comprato Dino Fava, Barreto, Pinga… Quindi, c’erano già troppi attaccanti e ho deciso di andare da un’altra parte per avere un minutaggio più ampio: scelsi il San Marino e andai in doppia cifra. Queste sono tutte esperienze che ti fanno crescere sia sotto l’aspetto caratteriale che tecnico-tattico, perché è comunque un campionato di C1 e, anche se adesso il livello un po’ si è abbassato, prima era un torneo in cui non c’era l’obbligo di far giocare i giovani. Prima, un ragazzo, se era bravo, giocava indipendentemente dalle regole che ci sono oggi”.

“Sei poi passato alla Triestina, con cui hai affrontato la Roma in Coppa Italia. In campo c’erano giocatori come Montella, De Rossi, Vucinic e non solo. Com’è stato affrontare questi campioni?”

“Se non mi sbaglio, eravamo arrivati ai quarti di finale e il turno prima avevamo battuto l’Atalanta, quindi eravamo partiti davvero bene in quella stagione. Tra l’altro, in quegli anni c’era ancora la doppia sfida e giocare all’Olimpico era stata una grande emozione; in casa, invece, avevamo fatto una grandissima partita, ma il valore tecnico di quella Roma era veramente impressionante. Sono esperienze importanti che mi porto con me”.

“In quell’anno la Juventus era in Serie B e, al ritorno, in trasferta, avete perso 5-1, ma sei andato a segno. Com’è stato affrontare questi fuoriclasse? Ma, soprattutto, che emozione hai provato quando hai fatto gol a Buffon? Tra l’altro, il tuo gol vi aveva portati, inizialmente, in vantaggio”.

“Penso che quella fosse la Serie B più bella della storia, anche perché, oltre alla Juventus, c’erano il Napoli e il Genoa. In bianconero erano rimasti molti dei giocatori delle annate precedenti: Nedved, Del Piero, Buffon, Trezeguet, Camoranesi… Erano lì “per sbaglio” e, anche se erano partiti con il freno a mano tirato, poi hanno stravinto il campionato. La cosa bella è che ho fatto il gol dello 0-1 all’inizio, ma poi non c’è stata storia. Quando incontrammo quella squadra nel girone di ritorno, veniva da 13/14 vittorie consecutive. Era una corazzata che, infatti, ha dominato il torneo, però sono emozioni che mi sono rimaste dentro e avere fatto gol a Buffon, che era Campione del Mondo, è uno dei ricordi più belli che mi porto con me”.

“Nella stagione 2007-2008, al Treviso, hai giocato con Barreto, Bonucci e Coda. Quanto potenziale aveva quella squadra? A livello personale, sei soddisfatto di quella stagione?”

“Quello è stato il primo anno in cui ho iniziato ad avere qualche problema fisico – soffrivo di pubalgia -, non stavo bene fisicamente e spesso giocavo dieci minuti o un quarto d’ora perché non potevo dare il 100%, dunque non ho fatto benissimo in quei due anni a Treviso. Il primo anno c’erano Billong, Bonucci… Eravamo una corazzata ed avevamo una squadra pronta per tornare in Serie A, ma purtroppo non andò benissimo, anche se ci salvammo. La stagione successiva rimasi lì: in panchina c’era Luca Gotti, c’erano Coda, Bonucci, Viali, Dario Baccin, Scurto… Quindi eravamo una formazione un po’ mista tra giovani e giocatori esperti. Forse, sono stati i due anni peggiori della mia carriera, perché avendo problemi fisici non potevo dare il 100% di me stesso”.

“Che allenatore era Gotti? Cosa ti è rimasto più impresso di lui?”

“Era quello che poi è diventato: è una grandissima persona, con valori importantissimi; non è il classico allenatore che si inventa il calcio, dava dei consigli giustissimi, era molto pacato e un grande comunicatore. Infatti, parlavamo spesso tra di noi, cercava di farmi capire che, nonostante la mia giovane età, dovessi dare sempre qualcosa di più, a prescindere dalla categoria in cui militavo. Forse è stato quello che ha cercato di dimostrare che le qualità e le potenzialità che avevo potevo metterle in mostra molto di più. Purtroppo, è capitato nell’anno in cui c’è stato il fallimento del Treviso. Non ci pagavano, gli ultimi mesi sono stati un’agonia: si sapeva che la società fosse sull’orlo del fallimento, quindi non avevamo né i fisioterapisti né il materiale per allenarci e lavorare. A lui non è servita come esperienza, anche se il potenziale da tecnico che aveva lo stava dimostrando. Poi ha fatto tanta gavetta da secondo e gli ultimi anni che ha fatto da primo mister – prima a Udine e adesso a Lecce – fanno capire che ha una buona carriera davanti a sé e se lo merita”. 

“Successivamente, ti sei trasferito al Ravenna, dove hai fatto 12 gol in 32 partite, di cui 4 doppiette – due volte contro il Cosenza e una contro Pescara e Andria -. Quanto è stata positiva quella stagione che, per te, si è rivelata un riscatto?”

“Dopo due anni non bellissimi e dopo aver subito un brutto infortunio, con il mio procuratore e grazie al mio desiderio di rilanciarmi; scelsi il Ravenna, anche perché il presidente Fabbri mi voleva a tutti costi. Così è stato e l’anno dopo sono andato a Cittadella, dove sono riuscito ad arrivare nel calcio che conta. Ogni tanto, nella vita bisogna fare un passo indietro per farne due o tre in avanti, che è quello che è successo a me”.

“La stagione successiva sei appunto andato al Cittadella, in Serie B. Quest’annata per te è stata magica a livello realizzativo: 23 gol in 39 presenze. Che soddisfazione hai provato?”

“Lo dicono i numeri e poi sono arrivato in un gruppo che era già abbastanza amalgamato. Tra l’altro, prima di me, a Cittadella c’era stato Meggiorini e successivamente Ardemagni, quindi le aspettative dei media erano altissime. Ho avuto la fortuna, grazie anche all’aiuto dei miei compagni, di conquistare il record di attaccante con più gol in una stagione nella storia del Cittadella. Giocavo anche con Gorini, che oggi allena proprio il Citta. Non è stato solo merito mio, ma di tutta la squadra, perché quando un attaccante fa gol è merito di tutti. Poi, è stato bravo anche il direttore sportivo Marchetti, che ogni anno cerca di sorprendere ed è diventato uno degli artefici principali di questo Miracolo Cittadella; anche con un budget limitato, riesce sempre a costruire una squadra per fare un campionato di livello e di buona prospettiva in Serie B. Con me, in quel campionato, c’era anche Manolo Gabbiadini, uscito dal settore giovanile dell’Atalanta: aveva 18 o 19 anni, il suo potenziale tecnico e fisico era già molto importante e si vedeva che avrebbe fatto una grande carriera”.

“La stagione dopo hai vestito la maglia della Sampdoria fino a gennaio, quando ti sei trasferito al Brescia. Che annata è stata per te? Come vive un giocatore il cambio di maglia nel mercato invernale?”

“Dopo la stagione a Cittadella, mi è arrivata la chiamata della Sampdoria: partii per il ritiro ma a settembre iniziai ad avere problemi alla caviglia, che quasi non mi permettevano di correre, perciò facevo molta fatica. A gennaio non ero più parte del progetto, quindi decisi di andare a Brescia, dove non feci malissimo, considerando i guai fisici che mi portai dietro per parecchi mesi. L’anno dopo passai in prestito a Novara, dove non riuscii a dare il massimo, ma poi a gennaio approdai a Grosseto, dove cercai di rilanciarmi e andò veramente bene, perché feci 7-8 gol in metà campionato. E la mia carriera è stata anche questa: quando toccavo il fondo avevo la forza di riscattarmi, magari andando in un’altra squadra”.

“L’anno dopo ti sei trasferito allo Steaua Bucharest, dove hai disputato anche i preliminari di Champions League. Cosa si prova a giocare in una competizione di questo tipo? Tra l’altro, per raggiungere la fase a gironi siete passati dai preliminari”.

“Quello è stato il punto più alto che abbia mai toccato nella mia carriera. Sono passato dalla Serie B a giocare la Champions League e ho avuto la fortuna e la bravura di fare gol sia all’andata che al ritorno nell’ultimo turno dei preliminari, poi abbiamo raggiunto la fase a gironi. Sono ben ricordato lì, ma, oltre a questo, ho fatto veramente bene e abbiamo realizzato una bella annata: avevamo vinto il campionato e la Supercoppa; sfortunatamente avevamo perso ai rigori la Coppa di Lega. Ma questo è stato l’apice della mia carriera: ho giocato contro il Chelsea di Mourinho, il Basilea di Salah e lo Schalke 04. Ciò mi ha permesso di fare un’esperienza diversa. L’anno dopo sono andato all’Eibar e l’unico rammarico è stato quello di non tornare alla Sampdoria o avere altre chance in Italia, visto che venivo da qualche buona stagione. Ma alla fine sono tutte esperienze che mi sono servite per la grandissima carriera che ho fatto”.

“Che emozione è stata giocare a Stamford Bridge contro il Chelsea di Mourinho nella fase a gironi di Champions? Quanto era forte quella squadra?”

“Sembrava andassero il doppio di noi. Era una squadra veramente forte: in panchina c’era Mourinho e poi in campo grandi giocatori, come Fernando Torres, David Luiz, Eto’o… Erano imprendibili: avevano una marcia in più. Comunque, era l’ultima giornata del girone, loro vinsero 1-0, ma avevamo fatto una grandissima partita. Poi, giocare a Stamford Bridge è un’emozione indelebile, anche perché erano venuti a vedermi i miei genitori e mio fratello”. 

“Ti sei poi trasferito all’Eibar e, in Liga, hai giocato sia contro il Barcellona di Valverde, in cui c’era Messi, sia contro il Real di Ancelotti, che aveva Ronaldo. Cosa puoi dirci di queste due partite?” 

“Stesso discorso di prima: avevano giocatori imprendibili. Quello era il primo anno di Neymar, Messi e Suarez, che trascinarono il Barcellona verso il Triplete: erano calciatori stratosferici, veramente extraterrestri. Secondi a loro c’era il Real Madrid di Ronaldo, Benzema, Bale e non solo; è difficile pensare al fatto che due anni prima giocavo alla playstation con loro e poi li ho affrontati dal vivo, sul campo. Sono emozioni grandi, forti, indimenticabili”. 

“A proposito di emozioni indelebili, hai fatto gol contro il Siviglia”.

“Ho segnato anche in casa contro l’Atletico Madrid del Cholo. Peccato che in queste due occasioni non abbia portato nessun punto alla squadra, però, come ho detto, anche quell’anno penso di aver dato il mio contributo, totalizzando 7 reti – timbrare così tante volte il cartellino non è facile -. Il mio rammarico – ribadisco –  è stato quello di non avere un’altra opportunità dalla Sampdoria, in Italia”. 

“Parlaci un po’ della tua esperienza in Australia, con la maglia del Western Sydney”.

“Mi sono trasferito dall’altra parte del mondo e sicuramente è stata un’esperienza bellissima, in un Paese straordinario. Calcisticamente non è quello che mi aspettavo, poi lì erano ancora agli inizi: c’erano 10 squadre in campionato e si giocava d’estate, dunque a temperature altissime. Rimasi solo un anno, poi tornai per la seconda volta in Spagna, a Cordoba, che è la mia seconda casa, perché sono stato lì per tre anni e mezzo, seppur non consecutivi. Cordoba fa parte delle soddisfazioni più grandi che ho avuto dal calcio, tralasciando la Serie B e altri tornei prestigiosi. Metà del mio cuore è biancoverde, quindi ringrazierò sempre questo club e i suoi tifosi, di cui ho grandissimi ricordi: mi hanno molto amato”. 

“Sei poi approdato in Cina: come rispondi a quelli che dicono che chi va in questi campionati pensi soltanto ai soldi?” 

“Erano anni in cui la Cina era l’Arabia di oggi. È normale che nel calcio il fattore economico sia importante, soprattutto quando arrivi ad una certa età. Per me è stata un’esperienza, anche se in Serie B, emozionante: era un campionato con tanti giocatori stranieri e allenatori come Lippi e Cannavaro. In quel periodo molti tecnici tentarono di portare il calcio cinese a un livello un po’ più alto. Sta di fatto che poi, con la pandemia, tutto andò perduto, quindi adesso spero che l’Arabia non faccia la stessa cosa: sono progetti che non possono durare solo 3 o 4 anni. In questo sport, non puoi fare programmazioni di poche stagioni per alzare il livello: giustamente devi portare campioni – che si pagano -, però, alla fine, mi auguro che il progetto calcio dell’Arabia Saudita duri parecchio. Spero non sia un buco nell’acqua e credo che, portando giocatori forti, anche di esperienza, questo sistema possa cercare di aumentare il tasso tecnico e tattico”. 

“Sei tornato al Cordoba: cosa ti ha spinto a rientrare in Spagna?” 

“Come ho detto, è la mia seconda casa. Sono andato in Cina, poi sono tornato a Cordoba – c’è stata la retrocessione dalla B alla C – e sono passato al Rayo Vallecano, dopodiché, a gennaio, il forte amore che avevo appunto per Cordoba mi ha portato a rientrare nuovamente lì, dove giocai per un altro anno e mezzo. L’Andalusia è un Paese spettacolare, dove la gente è apertissima, un po’ come il sud Italia. Mi aspettavo di chiudere la carriera lì, ma per ovvie ragioni – legate anche all’età – non è stato possibile. Ho avuto questa chiamata dal Giugliano, in Serie C, che mi ha dato la possibilità di continuare a giocare, a divertirmi e a cercare di aiutare i ragazzi in questa crescita calcistica in Italia. Sono esperienze, poi, soprattutto, negli ultimi anni venivo chiamato per aiutare i giovani – sia dentro che fuori dal campo -, oltre che gli allenatori, grazie alla mia grande esperienza. Gli ultimi due capitoli sono stati fondamentali per me per fare capire ai ragazzi che l’esperienza bisogna acquisirla giocando, impegnandosi tutti i giorni per provare poi a fare la carriera migliore possibile, arrivando ad alti livelli”. 

“Adesso giochi a San Marino: innanzitutto, cosa si prova a giocare a San Marino? Poi, per concludere, com’è nato il tuo soprannome?” 

“San Marino è stato quasi come un gioco: il direttore Matteo Guiducci mi contattò per cercare di capire se potesse farmi piacere affrontare lo Steaua Bucharest, mia ex squadra, oltre che disputare i preliminari di Champions. Per me è stata una grande emozione ed ho accettato subito. Adesso la mia carriera è finita: non so se continuare a giocare alla Virtus – vedremo, perché, vivendo in Spagna, logisticamente è difficile, però chissà -. L’esultanza del pifferaio è dedicata a mio figlio e iniziò tutto a Cittadella; non so se mi portasse fortuna, però quell’anno ho suonato il piffero 23 volte, quindi, da lì, mi rimase il soprannome “Il pifferaio”, dunque, quando segno, penso sempre a mio figlio Andreas. Quest’esultanza è diventata il mio marchio di fabbrica”. 

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