Il doppio salto con il Modena, Roberto Baggio e la promozione con il Torino – Dentro l’area tecnica #3: Gianni De Biasi
11 min readSiamo felicissimi di poter portare, come terzo ospite della nostra rubrica “Dentro l’area tecnica”, un allenatore davvero speciale: Gianni De Biasi. Dopo una prima esperienza tra i grandi, alla Vastese, è infatti approdato sulla panchina del Carpi, dove ha passato tre importanti anni in Serie C1, in cui è sempre riuscito a centrare la salvezza. Ma la prima vera grande impresa è stata, probabilmente, quella con la Spal: qui ha ereditato una formazione di bassa classifica di C2, portandola, nel giro di due anni, a sfiorare persino i play-off per andare in B. Dopo questa cavalcata, ecco uno dei capitoli più belli della sua carriera, quello da tecnico del Modena. Partito con l’obiettivo di ottenere la salvezza nella terza divisione del calcio italiano, è riuscito addirittura a compiere un doppio salto, portando i Canarini in Serie A. Il periodo molto positivo in gialloblù – da ricordare la vittoria contro la Roma di Capello e non solo – gli ha poi concesso di tornare in una piazza a cui aveva dato tutto già da calciatore: il Brescia. Qui ha avuto l’onore di allenare un fuoriclasse come Roberto Baggio – :”La sua passione era superiore al dolore che aveva”, ha detto in questa nostra intervista -. E un’altra società con cui ha scritto la storia è stato il Torino: preso il timone dopo il fallimento del club, il tecnico veneto è riuscito a portare i Granata in massima categoria, vincendo i play-off in finale contro il Mantova e facendogli conquistare, successivamente, la salvezza in due occasioni. Per concludere, abbiamo parlato anche delle esperienze sulle panchine dell’Albania e dell’Azerbaijan, due nazionali che magari tanti sottovalutano, ma che è riuscito a plasmare, lasciando un bellissimo ricordo.
Ci teniamo, dunque, a ringraziare Mister De Biasi per la bellissima opportunità concessaci e per la grande disponibilità con cui si è posto nei nostri confronti.
Ha realizzato una grandissima carriera da calciatore, arrivando a giocare persino in Serie A. Cosa l’ha spinta a diventare allenatore?
“Sicuramente la mia capacità di essere leader all’interno delle squadre. Quando giocavo, in quasi tutti i club in cui sono stato ero capitano: questo fa già capire la mia indole. Sono uno che cerca di mettere al servizio le proprie competenze e le proprie qualità. Tutto il resto arriva di conseguenza”.
Parliamo un po’ delle prime esperienze: le sue squadre faticavano parecchio ad inizio stagione (nel secondo anno a Carpi, per esempio, nelle prime 9 partite non ha mai vinto). Come ha superato questo problema?
“Quando prendi dei gruppi nuovi, hai bisogno di tempo per poter portare le tue idee e un’organizzazione di gioco. Le mie squadre sono sempre state organizzatissime e credo che i numeri lo confermino. Solitamente, faccio molti più punti nel girone di ritorno, specialmente quando seguo delle realtà che prima non conoscevo appunto. A Carpi è stato così per un semplicissimo motivo: avevamo l’obbligo di provare a salvarci, di evitare i play-out. Lo abbiamo sempre fatto nei miei 3 anni, giocando al massimo delle nostre potenzialità, tirando fuori tutto”.
Ha poi guidato il Cosenza nel campionato di Serie B. Cosa può dirci di quest’esperienza? Quanto le è dispiaciuto non riuscire ad ottenere la salvezza?
“A Cosenza sono stato fino a dicembre, mi hanno esonerato poco prima di Natale. Quando sono stato mandato via, la squadra era fuori dalla zona retrocessione, mentre quando l’ho ripresa era penultima in classifica. Non siamo riusciti a salvarci per un pelo: avevamo la partita in mano a Padova – 1-0 al 90’ -, ma abbiamo preso gol al 93’ su colpo di testa di Lantignotti. Me lo ricordo come se fosse adesso. Io so solo che con la mia media punti ci si sarebbe salvati senza particolari preoccupazioni. Io non sono mai retrocesso”.
E cosa si prova ad affrontare allenatori come Spalletti e Reja?
“Spalletti era all’inizio della sua esperienza da tecnico: era un ragazzino che doveva ancora farsi le ossa. Reja, invece, aveva qualche anno in più e aveva dunque una maggiore esperienza. Ho avuto la possibilità di sfidare grandissimi allenatori nel corso della mia carriera, come Capello, Ancelotti, Lippi, Mourinho…Se hai la squadra hai meno problemi, mentre se affronti undici con grandissime qualità diventa difficile fare il risultato”.
Ha poi allenato la Spal: in due anni ha portato questa squadra dalla C2 a sfiorare i play-off in C1. Cosa può dirci di questa esperienza?
“Abbiamo pure vinto la Coppa Italia di Serie C, anche se non siamo andati ai play-off per un solo punto – siamo arrivati settimi -. Avevo ancora un anno di contratto, ma il presidente della Spal ha pensato bene di non confermarmi. A novembre sono andato a Modena: il primo anno siamo riusciti a mantenere la categoria, poi abbiamo vinto il campionato di Serie C – abbiamo alzato anche la Supercoppa -, successivamente abbiamo ottenuto la promozione in A e nella stagione successiva ci siamo salvati”.
Ha, inoltre, alternato la linea difensiva a 3 a quella a 4. Cosa influiva maggiormente su questa scelta?
“Dipende sempre dalle caratteristiche dei giocatori che ho a disposizione. Bisogna cucire un abito che la squadra possa indossare al meglio. Da quel punto di vista, credo che bisogni avere un’apertura mentale diversa, per poter mettere i giocatori nelle condizioni migliori per esprimersi”.
Tra l’altro, nella Serie C del 2000-2001, ha giocato tutte le partite a 3, tranne una: il derby d’andata con la Reggiana, vinto 2-0.
“Francamente non mi ricordo, però le scelte le prendevo sempre sulla base dei vantaggi e degli svantaggi che avrei avuto. Avevo una squadra abbastanza brava dal punto di vista tattico, perché aveva già delle conoscenze, visto il lungo periodo avuto assieme. Su quest’aspetto incide molto il fatto di essere eclettici e di strutturarsi in campo nel modo per noi migliore in quel momento”.
Lei è stato protagonista di uno storico doppio salto, dalla C alla A. Quali sono stati gli ingredienti per compiere questa impresa?
“Un ingrediente è stato sicuramente la scelta dei giocatori. Se non li hai, non vai da nessuna parte. Io credo di avere avuto, insieme al mio grandissimo direttore sportivo Doriano Tosi, la possibilità di fare delle scelte straordinarie dal punto di vista della qualità degli atleti che avevamo. Avevamo una rosa di valore assoluto, tant’è vero che 7-8 calciatori su undici di quelli che avevamo in C hanno giocato titolari in Serie A. Potete quindi capire che qualità avessero. Ma la cosa più bella è che tutti quei giocatori che noi avevamo non avevano mai militato nella massima categoria e pochi avevano qualche presenza in B. Non siamo andati a fare quello che di solito fanno molti altri, ma siamo andati a prendere i nostri calciatori perché ne conoscevamo le qualità, dal punto di vista tecnico e tattico. Inoltre, erano degli ometti e non delle ballerine”.
Cos’ha provato quando avete battuto la Roma all’Olimpico?
“La vittoria a Roma, all’Olimpico – contro la squadra di Capello -, è stata una cosa straordinaria, perché abbiamo preso gol dopo 4 minuti su calcio di rigore. Venivamo da una sconfitta in casa contro il Milan – netta, tanto da farci dire:”Ecco qua la Serie A” -. Siamo riusciti a pareggiare prima della fine del primo tempo, poi abbiamo fatto gol su un rigore causato da Panucci. È stata una vittoria alla quale nessuno credeva. Alla fine siamo riusciti a raggiungere questo obiettivo importante, ma non abbiamo vinto soltanto nella capitale: abbiamo battuto anche l’Atalanta a Bergamo, per esempio. Era un’avversaria diretta e noi vincemmo 1-3, giocando un calcio spettacolare. Se vai a rivedere su YouTube i gol che abbiamo fatto in quella partita, sono qualcosa di fantascientifico: uno di rovesciata, un altro di tacco… roba da matti veramente”.
È poi stato mister del Brescia – squadra con cui aveva, tra l’altro, disputato oltre 150 partite da calciatore -. Ha allenato un fuoriclasse come Roberto Baggio: cosa le è rimasto impresso di lui?
“Baggio era un giocatore straordinario dal punto di vista tecnico. La cosa più bella di lui è che si metteva sempre a disposizione di tutti, non aveva problemi di nessun tipo e dava consigli a tutti i suoi compagni. Era al suo ultimo anno e aveva tanti guai fisici, però stringeva i denti e saper soffrire è un segnale importante. La sua passione era superiore ai dolori che aveva. Per noi è stato straordinario, perché ha fatto 10 gol e non so quanti assist. È stato il giocatore più importante che abbia mai allenato e per noi è stato il fiore all’occhiello”.
Un altro suo pupillo ai tempi del Brescia è stato Di Biagio: cosa si ricorda di questo grande giocatore?
“Gigi l’ho fatto giocare centrale in una difesa a 3 – abbiamo poi usato anche la linea a 4 -, nonostante volesse fare il centrocampista. Lui, secondo me, più avanti faceva fatica: era verso la fine della carriera e mi sembrava avesse perso il passo, perché non riusciva a durare nel tempo e faticava sotto l’aspetto fisico. Allora ho detto:”Gigi, facciamo una cosa: giochi centrocampista davanti alla difesa”, della serie:”Fai il difensore centrale, così corri un po’ meno, ma hai la brillantezza, perché di testa sei bravo e il piede per l’impostazione ce l’hai, poi sei rapido nei primi metri, quindi andiamo a nozze con te. Vedrai che ti allunghi la carriera”. Lui, però, non voleva fare ciò, perché in quella posizione c’era un suo amico e, se lui avesse ricoperto quella posizione, il suo amico non avrebbe potuto fare lo stesso. Voleva fare il centrocampista, ma io ho preso una scelta diversa e quindi ha giocato lì”.
Un’altra avventura molto positiva per lei è stata quella con il Torino: che emozione è stata riportare i Granata in Serie A? Ha poi allenato Davide Nicola, oggi mister del Cagliari.
“Torino è stata un’esperienza meravigliosa: è una piazza bellissima, con una tifoseria molto calda. È stato un anno molto duro, perché siamo partiti in ritardo e abbiamo fatto la squadra quando gli altri erano già avanti con il ritiro. Ci hanno dato una settimana in più di mercato – la stessa cosa hanno fatto con il Catanzaro -, in quanto reduci dal fallimento della società, prima che arrivasse Cairo. Abbiamo fatto, secondo me, un lavoro ottimo nella scelta dei giocatori e siamo riusciti a vincere i play-off, battendo il Mantova davanti a circa 65.000 spettatori. Una roba micidiale. Di Nicola posso dire che è stato un calciatore importante per me. Dentro lo spogliatoio era un ragazzo simpaticissimo: era uno che teneva in piedi il gruppo, faceva scherzi da tutte le parti ed era brillante di testa. Sono contento che stia facendo bene in campionato: domenica ha battuto proprio il Toro, dunque sarà contento, ma quella piemontese è pur sempre una città dove ha lasciato il cuore”.
Un’altra sua esperienza interessante è stata quella con il Levante. Ha avuto una serie di giocatori italiani importanti, come Storari tra i pali, Tommasi a centrocampo e Riganò in attacco. Cosa l’ha spinta ad andare in Spagna e che differenze ha trovato?
“Sono andato lì perché mi è stata offerta questa occasione di allenare il Levante, in seguito all’esperienza al Toro. Dopo un campionato vinto ed una salvezza ottenuta, il presidente dei Granata mi aveva esonerato per prendere Novellino. A quel punto mi è arrivata quest’offerta dalla Spagna, da una squadra che era ultima in classifica; quando arrivai, capii subito che aveva grandissimi problemi. Ci siamo comunque tolti delle soddisfazioni: abbiamo battuto 3-0 l’ Almería di Unai Emery, grazie ad una tripletta di Riagnò. Abbiamo poi ottenuto altri successi importanti: la mia ultima partita su quella panchina l’abbiamo vinta 0-1 contro il Betis di Siviglia, fuori casa. Ho lasciato quel club perchè non mi garantiva che avrebbe continuato l’anno successivo, visto che aveva dei problemi economici e non sapeva se si sarebbe iscritto al campionato. Allora ho fatto la scelta di tornare al Torino, poiché mi cercava: ho fatto le ultime 5 partite e ho salvato un’altra volta i Granata. Una volta li ho portati in Serie A e due volte gli ho fatto mantenere la categoria, sostituendo prima Zaccheroni e poi Novellino”.
L’esperienza forse più bella della sua carriera è stata quella sulla panchina dell’Albania. Cos’ha provato quando l’ha portata all’Europeo? Che differenze ci sono tra guidare un club e una nazionale?
“L’Albania è stata la mia soddisfazione più grande a livello calcistico, perché quando porti una nazione all’Europeo per la prima volta – quando nessuno ci credeva – è qualcosa di straordinario. Questo Paese mi ha dato emozioni continue. Tanto lavoro – durissimo -, alla ricerca dei pochi calciatori che c’erano. Quindi, è stato un compito abbastanza difficile, però, alla fine, le soddisfazioni ripagano tutto quello che hai fatto. Sono stati 5 anni e mezzo meravigliosi. Sono venuto via dopo che la squadra era al terzo posto, dietro a Spagna e Italia, alle qualificazioni ai Mondiali. Di più non potevamo fare: ho lasciato la nazionale a 4 partite dalla qualificazione, per consentire a chi mi avrebbe sostituito di conoscere i ragazzi e di prepararsi alle altre qualificazioni appunto. Per me è stato molto difficile, perché, quando ero lì, mi sembrava di essere in paradiso. Stavo troppo bene e, quando vieni via dal paradiso, diventa dura”.
Ha poi avuto una parentesi all’Udinese: cosa può dirci di Di Natale o di altri giocatori interessanti avuti?
“Di quell’esperienza mi è rimasto impresso poco. Ho voluto dimenticarla, perché ho fatto sì e no 11 partite ed è stato un capitolo della mia carriera molto negativo. L’unico giocatore che ricordo con piacere è il Niño Maravilla Alexis Sanchez. Del resto mi è rimasto in mente pochissimo”.
Cosa l’ha spinta ad approdare sulla panchina dell’Azerbaijan? Quali problematiche che magari noi sottovalutiamo ha dovuto affrontare?
“Mi avevano già cercato quando ero in Albania, prima ancora dell’Europeo – non si fece niente -. Tornarono alla carica quando ero libero: lì decisi di fare quest’esperienza, convinto di poter ripetere quanto fatto con l’Albania, cioè di poterli portare per la prima volta da qualche parte. Ho capito, però, che c’erano più difficoltà di quelle che mi immaginavo, anche se, nel tempo, siamo cresciuti. Nei 3 anni e 4 mesi in cui sono stato lì siamo migliorati tantissimo, tant’è vero che abbiamo fatto 5 vittorie consecutive contro squadre che erano davanti a noi nel ranking. Ed erano formazioni importanti, come la Macedonia del Nord – che ha buttato fuori dal Mondiale la nostra Italia -, la Moldavia, il Kazakistan, la Slovacchia – quest’ultima in casa loro -. Noi sappiamo le difficoltà che abbiamo avuto contro queste formazioni. Ho mollato pur avendo ancora la possibilità di rimanere lì, perché loro volevano che allungassi il mio contratto. Io, però, ho capito che le possibilità di fare qualcosa di più importante nell’immediato non c’erano”.
Per concludere, un insegnamento che vuole dare a tutti i giovani che vogliono fare calcio?
“Gli allenatori devono fare giocare i calciatori in maniera libera. Devono permettergli di esprimersi senza condizionarli troppo con i pensieri. Gli atleti devono essere capaci, innanzitutto, di divertirsi giocando a pallone, senza codificare tante cose e avendo molta più libertà. Poi ci sarà una crescita graduale, man mano che vanno avanti, e, successivamente, andranno inseriti in un contesto di squadra. Le abilità e le qualità tecniche, però, le affini e le migliori giorno per giorno, praticando e praticando. Se uno ha passione, se uno ha amore per quello che fa, se uno si sente dentro quel fuoco, alla fine riesce a tirare fuori il meglio di sé”.