«Reggio è una piazza fantastica: mi sembrava di giocare in Serie A» – Intervista all’ex granata Davide Narduzzo
12 min readDavide Narduzzo è un giocatore che Reggio e la sua gente mai dimenticherà per via del suo grande attaccamento alla maglia e per il fantastico modo con cui si è sempre relazionato con l’ambiente. Disposto a rinunciare a soldi e gloria, è stato, infatti, uno dei ragazzi che ha continuato a vestire il granata anche dopo il fallimento della società. Difendendo i pali dell’undici della Città del Tricolore in oltre 60 occasioni, è stato uno dei protagonisti della rinascita della Reggiana che, ripartendo dal dilettantismo, è arrivata ad ottenere persino la promozione nel campionato cadetto.
E questo è solo un assaggio di quello che potrete leggere in questa lunga intervista, perché Davide ci ha raccontato anche gli anni nel settore giovanile del Milan, l’esperienza con Vivarini a Teramo e tanto altro.
Raccontaci la tua esperienza nel settore giovanile del Milan. Hai giocato con calciatori come Cristante e Petagna, tra l’altro.
“All’età di 13 anni mi aveva cercato anche la Juventus, ma il mio approdo in rossonero si è concretizzato subito perché il Milan mi ha fermato dopo un paio di allenamenti. Ho fatto la trafila di tutto il settore giovanile: sono stato lì dai 14 ai 19 anni – dai giovanissimi fino alle ultime due o tre stagioni di Primavera, perché la Berretti non l’ho fatta – ed è stata un’esperienza incredibile. Nell’annata 2010-2011 c’erano giocatori come Gattuso, Inzaghi, Nesta… questa gente qua, insomma, che ha poi dato l’addio al Milan, qualcuno anche al calcio. Apprendi subito tanto, soprattutto dal punto di vista umano, perché magari ci si aspetta che siano degli alieni, ma, fondamentalmente, sono persone come noi. La differenza la fanno la personalità e la maturità nella vita. Parlando di Cristante e Petagna, loro avevano un anno in meno di me, ma sono due ragazzi per bene. Il primo, soprattutto, ha sempre avuto un talento in più, coltivato poi nel tempo e agevolato da un pizzico di fortuna – che serve sempre – nella scelta dei procuratori e non solo. Sicuramente si può dire, però, che quello che accomuna questi grandi giocatori, arrivati a livelli molto alti, sono la professionalità e la costanza”.
Davide Narduzzo ai tempi del Milan
C’è qualcos’altro che ti è rimasto particolarmente impresso di quel periodo in rossonero? Qual è l’insegnamento più grande che hai ricevuto?
“Non so se sia cambiato, ma in quel periodo si stavano organizzando per permettere anche a ragazzi provenienti da fuori regione di giocare per il Milan, facendo in modo che potessero comunque frequentare la scuola. Il convitto, nei primi due anni, cadeva un po’ a pezzi; lo condividevamo con i ragazzi dell’Inter, tra l’altro. Quella era una cosa formativa, perché eravamo in cinque in delle stanze piccole con letti a castello. L’insegnamento più grande che trai – non lo richiedono loro: lo devi dedurre tu se vuoi continuare in quell’ambiente – è la determinazione, oltre al rispetto per il prossimo. C’era una forma di nonnismo – in senso buono – che fa la differenza, perché ti relazionavi con gente di cinque o sei anni più grande di te. Quindi lì impari a vivere e a svegliarti presto, altrimenti torni a casa. A livello calcistico, ho avuto a che fare con allenatori arrivati in Serie A da giocatori. Ho avuto, per esempio, Stefano Eranio, poi, i primi due anni, Davide Pinato, come mister dei portieri, che ha difeso i pali dell’Atalanta, oltre che del Milan stesso. Ho avuto sin da subito degli esempi importanti. Ciò che ricordo più volentieri, tuttavia, è la vittoria dello scudetto ‘Allievi nazionali’, contro l’Empoli di Rugani. Inoltre, l’allenatore dei portieri in quel periodo era William Vecchi, con cui avevo un rapporto bellissimo. Quando metti piede al Vismara, a Milanello, senti subito che è un ambiente adatto a chi vuole giocare a calcio e ambisce a palcoscenici importanti. Se hai la bravura e la fortuna di starci, poi, tutto è insegnamento. Confrontarti con tutti quelli che ti stanno attorno – anche i cuochi, per esempio -, ti fa entrare in un certo tipo di mood”.
Sei poi passato al Teramo. Non eri il primo portiere, ma hai comunque collezionato diverse presenze. Inoltre, davanti c’erano calciatori come Donnarumma, Buonaiuto e Lapadula – oltre a Moreo, arrivato nella stagione successiva -. Il mister, tra l’altro, era un certo Vivarini, che, nella passata stagione, ha portato il neopromosso Catanzaro ai play-off in Serie B. Cosa puoi dirci di questa tua avventura?
“Vivarini l’ho avuto per tre anni: con lui abbiamo fatto l’ultimo anno di C2 delle famose nove retrocessioni e nove promozioni. Siamo arrivati terzi a pari merito con la seconda, ma semplicemente perché la prima piazza era un traguardo molto legato alla Supercoppa; l’importante era arrivare tra le prime nove quell’anno. Nella stagione successiva abbiamo vinto il campionato, poi ci hanno buttato giù per un illecito amministrativo del presidente, ma, sul campo, quel torneo trofeo l’avevamo conquistato, quando c’era Donnarumma. L’anno dopo siamo arrivati quinti o sesti, partendo con sei punti di penalizzazione, nel girone B di Serie C. Abbiamo fatto tre stagioni in cui abbiamo perso solamente due volte in casa, quindi quel periodo è stato pazzesco. Vivarini è uno degli allenatori più forti che abbia avuto, perché è un mister che basa molto – non so se adesso abbia cambiato questa filosofia, ma, fino a otto anni fa, era così – la sua prospettiva di calcio nel concreto. ‘Si vince. Ho questi giocatori qua? 5-3-2. Ho questi altri? 4-3-3’: si sa adattare con ciò che gli viene messo a disposizione. Sotto il punto di vista umano, nella gestione dello spogliatoio è molto bravo. È una persona a cui puoi tranquillamente dare le chiavi di casa. Parlando dei calciatori, mi sento molto volentieri con Lapadula, tuttora: è un ragazzo d’oro, un compagno di squadra ideale in ogni situazione. Ce l’hai 97 minuti in campo e lotta su ogni pallone contro tutti. Lui è uno di quelli che ricordo molto volentieri: è una persona incredibile. Non voglio poi dimenticare, ovviamente, gli altri ragazzi in rosa in quegli anni, perché è stato un periodo davvero speciale. Sicuramente lui spicca un po’ di più per i suoi 21 gol, oltre a Donnarumma che arrivò a 24, ma avevano due caratteri diversi. Erano due bravissimi ragazzi, ma ‘Lapa’ era un po’ più seconda punta e si faceva un po’ di più il culo per aiutare, oltre che per fornire assist e reti. È lui quello che è emerso un po’ di più in quegli anni”.
Cosa ti ha spinto a venire a Reggio? I momenti più belli in maglia granata?
“A Reggio ho vissuto quattro anni, uno più bello dell’altro. Ci sono stati degli alti e bassi, come il fallimento di Mike Piazza, ma ho deciso di rimanere perché, per me, rappresentare questa città, indipendentemente dalla categoria, era un valore aggiunto. Inoltre, mia moglie è di Reggio, quindi per me è una seconda casa, dove sono stato sempre bene. Non mi ha spinto niente, nel senso che ho ricevuto la chiamata e sono volato, tralasciando l’aspetto economico, che non mi interessava – andavo per i 22 anni quando mi è arrivata la chiamata -. Conoscevo la Reggiana già prima di giocarci, poi, lì, ogni anno è stato un crescendo: mi sono sempre ritagliato il mio spazio. Ho conosciuto molte persone eccezionali all’interno della società, come Quintavalli o lo stesso Amadei, due gentiluomini. Mi sarei aspettato un trattamento diverso, in generale, soprattutto nell’ultima stagione – quella del Covid -, dopo la vittoria dei play-off. Avevo giocato titolare la prima parte di stagione, poi mi sono dovuto operare al ginocchio. Quando sono tornato, il mister aveva preso la scelta tecnica di fare giocare Venturi – che io ho rispettato -, dopodiché mi hanno un po’ lasciato a casa. Sinceramente non me l’aspettavo, ma non voglio dare colpe a nessuno. Penso che mi sarei meritato, come detto, un trattamento diverso nel tempo, detto ciò non ho mai litigato con nessuno e ho sempre portato rispetto. Reggio – ripeto – per me è una seconda casa, dove tornerei anche a piedi. Ho bellissimi ricordi di questa piazza”.
Ho avuto il piacere di intervistare diversi tuoi compagni, come Belfasti, Pellizzari, Libutti, Staiti e Scappini. Tutti questi hanno detto che la Reggiana ha qualcosa di speciale – qualcuno ha usato, come te, la parola ‘casa’ per descrivere il rapporto con la città -. Secondo te, cosa rende unica questa piazza?
“Quelli che hai nominato sono tutti atleti fantastici e, come persone, sono ancora più speciali. Libutti è agli antipodi del calciatore: è gentilissimo, il numero uno. La bellezza di giocare a Reggio è semplice, nel senso che mi sembrava di essere in Serie A anche quando eravamo in C. La piazza, giustamente, pretende, perché ha dei tifosi da massima categoria e la Curva è spettacolare. È inutile, inoltre, che ti spieghi quanto sia bello giocare al Città del Tricolore. È tutto l’insieme di cose a rendere speciale la città. Lì la gente viene a vederti agli allenamenti addirittura. Sono cose che, quando mi sono avvicinato a questo sport da bambino, sognavo di poter vivere. Ho avuto appunto la fortuna di poter realizzare questo desiderio. Giocare con quindici mila persone che ti supportano fa la differenza. Sono fiero di aver concretizzato questa mia ambizione che avevo da quando ero piccolo. Mi sono tolto le mie soddisfazioni e sono felicissimo di questo. Vedo, tra l’altro, che molti tifosi ancora mi scrivono: mi fa piacere, perché vuol dire che ho lasciato un bel ricordo anche a livello umano. Questa è la cosa più importante”.
La promozione in Serie C è stata un primo mattone per la ricostruzione del club dopo il fallimento, tuttavia siete arrivati in poco tempo a conquistare il salto di categoria nel campionato cadetto. Ti aspettavi che la società potesse rinascere così velocemente?
“In Serie D, con Antonioli, avevamo costruito la squadra un po’ in fretta, in un girone, tra l’altro, non semplice, poiché c’erano Modena e Pergolettese. Sapevamo che, se avessimo raggiunto i play-off, avremmo avuto grosse possibilità di essere ripescati. Non si è mai sicuri e abbiamo sempre lottato per vincere il campionato, però, quando abbiamo visto che le altre allungavano, siamo dovuti rimanere uniti per centrare l’obiettivo dei preliminari. In finale abbiamo perso contro i Canarini, ma quello non conta. Parlando dell’anno in C con Alvini, quasi nessuno ci vedeva là in alto ai nastri di partenza del torneo – i giornali ci davano addirittura per sesti o settimi -. Ci siamo tolti, invece, anche lì, dei bei sassolini dalle scarpe. È stato un anno particolare per via del Covid, però, con Alvini, ho imparato veramente tanto a livello calcistico. Era una squadra mixata tra giovani, esordienti che sono esplosi in quella stagione e ‘vecchi’. Facevamo un calcio simile a quello dell’Atalanta, quindi eravamo una delle prime squadre a giocare in quel modo in Serie C. Ci siamo divertiti parecchio. C’erano giocatori bravissimi, tra l’altro, come Fausto Rossi davanti alla difesa e Spanò. È stato davvero incredibile quando ha lasciato il calcio per altre scelte a fine campionato, ma ti fa capire ancor di più lo spessore umano di quel ragazzo. È stato, dunque, un bell’anno: non ce lo aspettavamo, ma ci abbiamo sempre creduto”.
Davide Narduzzo e il trofeo sollevato dopo la vittoria dei play-off
Tra l’altro, in quel campionato la Reggiana ha perso solamente una volta quando c’eri tu tra i pali. Che potenziale aveva quella squadra? Quali erano le sue peculiarità a livello di gioco?
“È molto semplice. Giocavamo con un 3-4-1-2 e mettevamo in pratica la filosofia di Alvini, ovvero un calcio uomo su uomo, offensivo al 120%, quindi rischiando qualcosina, ma ci allenavamo per fare quello. In certe partite mi rendevo conto che ognuno sapeva esattamente quello che doveva fare: eravamo delle macchine. Sotto certi aspetti gli avversari ci capivano poco – mi è capitato, tra l’altro, più volte di notare ciò -. A livello tattico, c’erano i vari rombi di costruzione che si formavano in mezzo al campo, richiesti dal mister. Era veramente bello giocare in casa con lo stadio pieno: sono emozioni indelebili. Mi ricordo, per esempio, la partita del Centenario contro il Carpi, in cui, tra l’altro, ho parato un rigore al 90’ a Vano. Sono state tutte delle belle emozioni”.
La famosa partita del Centenario: la Reggiana e tutto il calore della sua piazza
Tornando ad Alvini, hai qualche aneddoto su di lui? Ti sorprende il fatto che alleni ancora a livelli così alti? Sapresti descriverlo sia come allenatore che come persona?
“Dal punto di vista umano, posso dire che lui vive per il calcio h24. È un appassionato: sembra che da quando ha iniziato a camminare volesse fare l’allenatore, per come si pone, per come pensa, per come arriva al campo. Come mister, invece, credo che mi abbia messo in testa delle idee, a livello tattico, in più rispetto ad altri, perché è maniacale sotto tutti gli aspetti. Uno di questi, per esempio, è il gioco con i piedi, partendo dal rinvio dal fondo. È un tecnico che ti dà delle base solide, che poi ti porti anche dietro. Mi aspettavo che potesse arrivare così in alto e trovo che stia facendo la Serie B con merito”.
Parlando sempre di tecnici, la Reggiana ha messo alla guida della Primavera mister Turrini, che ha allenato anche te recentemente. Cosa puoi dirci su di lui?
“Devo dire che l’ho avuto per poco tempo al Borgo San Donnino, dunque non ho potuto conoscerlo bene. Mi è sembrata, ad ogni modo, una brava persona: questa è la cosa più importante sicuramente”.
Oggi sei al Borgo San Donnino, ma è da un po’ di tempo che sei nel mondo dei ‘dilettanti’. Cosa ti ha portato a scendere di categoria?
“Ci sono state un po’ di vicissitudini. Dopo l’anno in cui siamo andati in Serie B a Reggio, mi è stato detto che erano state fatte altre scelte, pertanto ho avuto delle richieste e quella più appetibile è stata quella di Gilardino, a Siena, che mi ha chiamato perché voleva rifare la squadra, partendo da me in porta. È stato un po’ un marasma a livello dirigenziale. Dopo essere stati ripescati in Serie C, hanno deciso di non confermarmi e, in seguito a quella stagione, sono stato a Rieti per qualche mese. La società, tuttavia, era un disastro, quindi io e mia moglie abbiamo fatto una scelta di vita, provando un’esperienza all’estero. Siamo stati in spagna 8 mesi e abbiamo provato a prendere questa decisione per provare qualcosa di nuovo e cercare una squadra, che ho trovato. Sono poi successe altre cose che ci hanno costretti a tornare in Italia, dunque sono partito un po’ dal basso, perché ho avuto la chiamata di Bastrini, Altinier e La Rosa, che allenavano il Colorno. Oggi vivo qui, appunto a Colorno, e il mio bimbo è nato a Parma. La società aveva l’ambizione di salire in Serie D. Non conoscendo l’eccellenza, mi aspettavo che fosse un ambito diverso – anche a livello economico -, invece è un girone molto appetibile sotto tutti i punti di vista. L’anno scorso mi ha chiamato la Cittadella Vis Modena, con la quale ho vinto il campionato. In D, oggi, ci sono scelte particolari da fare, poiché il regolamento incentiva parecchio a fare giocare i giovani, dunque i portieri sono molto penalizzati. Ho raccolto le mie 34 presenze e ho vinto il campionato lo scorso anno – e l’eccellenza non è mai facile -. Prima che cominciasse questa stagione, ho ricevuto la chiamata del Borgo, società molto ambiziosa. Piano piano si sono incanalate tutte queste cose, che hanno fatto sì che io rimanessi in questa categoria, fermo restando che, se dovesse chiamarmi una squadra di un livello superiore, valuterei la proposta, senza nulla togliere a nessuna delle formazioni del torneo in cui gioco. I miei 30 anni ce li ho ed è un periodo splendido della mia vita, che mi godo, poiché ho una moglie e un figlio stupendi, quindi non ho di che lamentarmi. L’importante è stare bene, poi accetterò tutto quello che verrà. Sto giocando sempre e qui sono felice. Se dovesse esserci una chiamata da qualche club di livello superiore, la valuterò per bene, però, sicuramente, il Borgo San Donnino mi sta trattando in modo fantastico e sono contentissimo di essere qua”.
E quali sono gli obiettivi per questa stagione?
“Sicuramente un obiettivo è quello di centrare i play-off, perché la società è pretenziosa. Il presidente Magni non ci fa mancare niente: è un tuttofare, l’uomo in più della società. Essendo retrocessi dalla Serie D, l’ambizione, chiaramente, è quello di tornare in questa categoria nel giro di due anni, direttamente o tramite i preliminari. In questa stagione, visto che l’andazzo è positivo, cercheremo di vincere il campionato, fino a quando la matematica non ce lo impedirà almeno. Siamo una squadra attrezzata, costruita per occupare le posizioni più alte della graduatoria. Se non riusciremo a salire direttamente, cercheremo quantomeno di qualificarci ai play-off, che sarebbero già un traguardo importante”.
Ringraziamo vivamente Davide per la grande disponibilità e la bella opportunità concessaci.